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Esempi di Greenwashing

Dove troviamo il greenwashing? Di solito nelle aziende multinazionali o nazionali che producono su vasta scala. L’esempio per eccellenza è quello dei prodotti per la bellezza e il make-up.

Esempio di comunicazione greenwashing attualmente attiva

Sulle etichette e confezioni

Quante volte hai letto frasi del tipo “con ingredienti di origine naturale“, “con estratti naturali”, “ti rende naturalmente bella“, “packaging riciclabile“, “100% green” e via dicendo?
Queste sono tutte frasi che tecnicamente non sono ingannevoli, ma che nella realtà possono comunque indurre in errore un acquirente poco informato. Te le traduco dal pubblicitariese all’italiano classico, così si capisce meglio:

  • ingredienti di ORIGINE naturale“: se vogliamo fare i puntigliosi, anche la plastica è di origine naturale, il petrolio si estrae dal sottosuolo ed esiste in natura. L’origine degli ingredienti non tiene conto di eventuali processi di lavorazione successivi, potenzialmente inquinanti. Stessa cosa vale per “con estratti naturali“, “con il 95% di ingredienti di origine vegetale” e potrei proseguire fino a domani.
  • ti rende NATURALMENTE bella“: l’avverbio messo a puntino che richiama la natura, l’ideale di bellezza pura, senza strani agenti chimici e ingredienti di dubbia provenienza. Un ever green, è proprio il caso di dirlo. Chi lo stabilisce quale sia il concetto di “naturalmente bello”? Di sicuro non può farlo una legge, perché la bellezza è soggettiva. Altra frase pubblicitariamente e legalmente sicura.
  • 100% GREEN“: Il classico esempio di frase che dice tutto senza dire niente. Green letteralmente significa verde. Io potrei benissimo creare una crema completamente di colore verde (crema, scatola, packaging) e dire che è 100% green, anche se composta al 100% da petrolio. Qualcuno potrebbe dirmi che sto mentendo? Inoltre anche il concetto di “green” non è giuridicamente rilevante. Al contrario, “ecologico” è un termine che potenzialmente può essere toccato da regolamentazioni specifiche.
  • Packaging RICICLABILE” è uno degli ultimi ritrovati del copy attento a non offendere gli ecologggisti. La plastica estratta dal petrolio è quasi tutta riciclabile, ma questo non risolve il problema ambientale. Il riciclo è una “toppa” al problema dei rifiuti. Rimettere in circolo nuova plastica riciclata (che spesso non è riciclabile una seconda volta) non rende l’azienda più ecologica. Però magari ti convince a comprare il prodotto.

Questi sono solo alcuni esempi, ma di greenwashing si parla anche di tutti quei “packaging compostabile” o “biodegradabile” che si leggono quasi ovunque ormai. Queste pubblicità possono indurre il cliente a credere che sia possibile buttare il pacchetti nel cestino nell’umido o addirittura abbandonarlo nell’ambiente perché “all’ambiente non fa male”. SBAGLIATO. Per compostare o biodegradare la maggior parte di questi oggetti sono necessari macchinari o temperature specifiche. Hai mai letto “compostabile a partire da 50 gradi”?

Nei loghi e nei colori

Anche Mc Donald’s di recente ha aggiunto il verde sullo sfondo del suo logo e ha inserito ben due varietà di insalate nei suoi menù. Secondo te si può dire che faccia bene all’ambiente o alla salute? Ovviamente no, ma generalmente il nostro cervello recepisce il verde come un colore che trasmette tranquillità e sicurezza. Al contrario del rosso che (oltre alla passione e alla sensualità) trasmette ansia e ci mette in allarme. Non è un caso che sirene e segnali di pericolo siano spesso di colore rosso.

Molti prodotti per la casa di recente hanno adottato packaging bianchi o trasparenti, con qualche tocco di verde, azzurro o colori chiari per indurre nel nostro cervello l’idea di pulito e rispetto per l’ambiente. In altri settori va tanto anche il marrone che dà l’idea di terra, rustico e organico.

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Dettagli in legno, vetro, foglie, fiori, alberelli, animaletti (spesso panda, coniglietti, cagnolini) e altri elementi della natura completano l’etichetta dei marchi che vogliono passare per green ma stanno facendo greenwashing.

Progetti ecologici, solidali e “rottamazione”

Purtroppo i grandi marchi stanno ricorrendo anche a stratagemmi peggiori per attuare il greenwashing: creare campagne di solidarietà o sostenere progetti ecologici (es. piantare alberi) senza cambiare minimamente la loro attività di produzione e vendita. Più o meno è come se Homer Simpson finanziasse la ricerca contro l’obesità continuando a mangiare ciambelle e bere birra. Non è sempre così, ma quando lo fanno i grandi marchi di solito è.

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Un esempio di trappola in cui stavo per cadere anche io era quello di un noto brand di abbigliamento che anni fa faceva “rottamazione” degli abiti usati. Raccoglieva abiti smessi (anche in pessime condizioni) ed in cambio donava un buono sconto sulla spesa successiva. Peccato che di tutto il “raccolto” ben poco finisse effettivamente all’associazione che si occupa di reimmettere in circolo i materiali degli abiti usati. Per tutto il resto c’è la discarica.

Limited edition, collezioni green e “sottomarche”

Può capitare che i brand creino linee specifiche per il “target green addicted“, che saremmo io te e tutti coloro che si preoccupano per l’ambiente. Di solito sono composte con materiali “naturali”, compostabili o ricilabili. Queste linee sono solo una parte di produzione dell’azienda, che le usa per lavare la coscienza dei consumatori. Ci sentiamo più buoni a scegliere l’unica alternativa che ci sembra più ecologica sul mercato in quel momento. Di solito hanno anche prezzi abbordabili, che ci sembrano un affare.

Il greenwashing può anche portare un brand a creare un’intera marca “a parte” la cui comunicazione rispecchia l’ideale green. Poi si indaga un pochino e si scopre che dietro la facciata si nasconde il grande marchio e (soprattutto) la produzione fast fashion. In questo caso è anche peggio, perché tutto ciò è creato a puntino per farci spendere di più, giustificando il prezzo con il rispetto dell’ambiente. In realtà il ricavato continuerà a finanziare anche la fast fashion.

Blogger e influencer

Purtroppo qui casca l’asino: il greenwashing può essere fatto anche dai brand sostenibili. Per poter arrivare a tante persone, vendere e stare al passo con i grandi marchi, spesso affidano la comunicazione sulla sostenibilità dei propri prodotti a blogger o influencer che fino al giorno prima pubblicizzavano fast fashion.
Qui il brand perde la sua reputazione: arriverà ad un pubblico che non capirà bene il messaggio e perderà credibilità agli occhi degli utenti davvero interessati a brand sostenibili.

Greenwashing: nasconde lo sporco in bella vista.

Il web è pieno di profili e blog anche piccoli (spero che il mio ne sia esempio) che scelgono di comunicare in maniera onesta e veritiera la sostenibilità, spiegando anche il punto di vista e le difficoltà delle aziende. Parlare alle persone onestamente è la forza dei brand che vogliono fare davvero la differenza.

Come evitare il greenwashing?

Evitarlo, lo ammetto, è molto difficile. Sicuramente in uno dei prossimi post ti darò delle alternative per la fast fashion, in ogni caso l’unico modo resta informarsi sui brand prima di acquistare. Se sei arrivat* fin qui certamente sei già a buon punto, almeno sai che non ti puoi sempre fidare delle pubblicità o delle confezioni. Cerca notizie sulle aziende (che di solito si trovano facilmente on-line) e continua a seguire blog e profili che si occupano seriamente di sostenibilità.

Infine ci tengo a precisare che le aziende e la pubblicità non solo il male, ci permettono di avere il necessario per vivere senza dover autoprodurre tutto (che è un’utopia nel mondo attuale) e danno lavoro a molte persone. Inoltre, su molti prodotti garantiscono un livello di igiene e qualità chimica irripetibile a casa. L’obiettivo per il futuro è quello di usare le nuove tecnologie e le competenze di chi comunica per vendere prodotti migliori, davvero rispettosi dell’ambiente.

Link Utili

Qui sotto puoi scaricare la “Guida alla pubblicità ingannevole, comparativa, subliminale e occulta” creata dalla Lega Consumatori e dalla regione Lazio per i giovani. Spero ti sarà utile per approfondire l’argomento.

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